Davide Chiesa non è un uomo da record. Nonostante abbia compiuto sei spedizioni impegnative negli ultimi sei anni, nonostante nel 2017 abbia scalato nientemeno che l’Everest, l’alpinista di Castel San Giovanni rimane uno che in montagna ci va per passione. Strano a dirsi, a spingere Chiesa ad affrontare le ascese più ardue non è la volontà di stabilire dei primati, ma più che altro il desiderio di documentare le sue straordinarie esperienze: perennemente armato di diario e videocamera, trasforma le sue scalate in libri e film, elabora i suoi viaggi avventurosi in modo che diventino vere e proprie storie. L’ultima, frutto dell’esperienza sul monte più alto del mondo, è “Fino alla fine dell’Everest”, film-documentario che verrà proiettato sabato sera alle 21 alla “Casa della cultura e del vino” a Canneto Pavese, dove Chiesa sarà ospite del circolo culturale “Il Cirro capriccioso”.
Davide Chiesa, portacolori del Cai Pavia, ha iniziato ad arrampicare nel 1991. Oggi ha all’attivo circa 400 salite in quota e su ghiaccio, pareti nord, invernali, vie normali, scialpinismo. Ha raggiunto i suoi obiettivi allenandosi in maniera costante sull’Appennino e ha compiuto una naturale evoluzione con il passaggio alle spedizioni extraeuropee: Condoriri, Huayna Potosi, Barunste, Mera Peak, Manaslu, Aconcagua, Lobuche East e, lo scorso anno, l’Everest. Animato da autentico spirito documentaristico, ha inoltre pubblicato tre libri e due film-documentari.
Cominciamo dal principio. Quando ha scoperto la montagna?
«Da ragazzino, con gli scout. Mi sono innamorato subito dell’ambiente montano a 22 anni ho cominciato a scalare. Dapprima sono stato attirato dall’arrampicata, ho fatto tante pareti di ghiaccio anche piuttosto pericolose, poi a quarant’anni (sono del ’68, quindi non troppo tempo fa) ho scoperto lo sport di resistenza e ho cominciato ad allenarmi con la corsa e lo sci alpinismo, affrontando salite molto lunghe e ripide ma non troppo difficili dal punto di vista tecnico. Da un certo punto in poi ho smesso di cercare il brivido, il rischio a tutti i costi: sebbene l’adrenalina sia una componente fondamentale anche nelle spedizioni lunghe, quando decidi di affrontare una scalata come quella all’Everest entrano in gioco tutta un’altra serie di fattori».
Cioè?
«Una spedizione di questo genere dura circa due mesi, ma non tutti i giorni si scala. Buona parte del tempo si aspetta la condizione climatica giusta, ci si riposa, si ascoltano i segnali che ci vengono inviati dal nostro corpo. Si impara a trascorrere molto tempo con sé stessi, e soprattutto a vivere in un modo diverso. La giornata è scandita solo dall’alba e dal tramonto, dimentichi il calendario, smetti di guardare l’orologio. Entri in una dimensione naturale, durissima ma allo stesso tempo meravigliosamente appagante: hai freddo e non hai alcun tipo di comodità, eppure a poco a poco il disagio si trasforma in piacere. E alla fine stai benissimo»
Ci sarà stato anche qualche brutto momento sull’Everest.
«C’è stato, sì. Al campo base con me c’era anche Ueli Steck, uno dei migliori alpinisti al mondo, che ha perso la vita proprio in quel periodo, mentre si allenava in solitaria. Nel film gli ho voluto rendere un piccolo omaggio, era un grande sportivo».
Lei ha una bimba di sette anni, e nonostante abbia ridotto il coefficiente di rischio delle sue imprese l’alpinismo rimane comunque uno sport pericoloso. Non ha mai pensato di smettere per lei?
«Nel film ci sono diversi dialoghi con mia figlia, ed è un discorso che con lei affronto molto serenamente. Le ho spiegato che i sogni vanno inseguiti, a qualunque età. Il mio è questo, e come tante altre attività comporta dei rischi, l’importante è saperli ridurre al minimo. L’incidente, l’imprevisto possono sempre capitare, ma nel tipo di alpinismo che pratico io è abbastanza raro: su due mesi di spedizione, i giorni rischiosi di solito sono quattro o cinque, e in quel momento diventa fondamentale fare appello alla propria esperienza e rimanere lucidi».
E dopo aver scalato l’Everest? Cosa rimane da fare?
«Non essendo uno che insegue i record, non mi pongo questo problema, non ho la necessità di fare “di più”. E comunque non anticipo mai la mia prossima spedizione, di solito parto senza dirlo a nessuno».
E allora mettiamola così: quali altre imprese le piacerebbe affrontare prima o poi?
«La verità? Vorrei affrontare una spedizione nel ruolo di videomaker, e non di protagonista dell’impresa. Mi piacerebbe per una volta filmare la scalata di qualcun altro: dovrei per forza di cose affrontarla anche io, ma la storia che racconterei non sarebbe la mia. Sarebbe un interessante cambiamento di prospettiva».